Una questione di potere

I primi tempi, una delle cose che farete più fatica a capire è se un NewYorker può o non può fare una cosa. Nel video Rachel ci spiega come fare, anche se noterete che non è proprio facilissimo.
Se siete stati nel Regno Unito, vi renderete conto che in inglese britannico è tutto molto più semplice. Ma non usate qui la pronuncia di “can’t” anglosassone, suona ridicolo e anche un po’ simile a “cunt”, una parola che è meglio non dire in pubblico.

Buono studio!

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Come stai?

A New York ci si saluta tantissimo. Ci si saluta anche più volte al giorno. Non è raro scambiare un “Hi” ogni volta che si incrocia un collega in corridoio. A volte si salutano i compagni di ascensore, e perfino l’autista del bus. Questa cosa all’inizio sembra buffa, ma in poco tempo diventa un automatismo. In fondo, anche se routine, salutarsi è un’attività più gradevole che evitare di farlo. Ma ciò che probabilmente vi impressionerà di più è il fatto che durante tutta la giornata vi sentirete chiedere “come stai?”. Non solo amici e colleghi, ma anche il barista, l’edicolante, il tassista, il receptionist, il cassiere, e così via. Durante tutta la giornata è un susseguirsi di “How are you?”, “(How) are you doing?”, “How was your day?” (se di sera), “How is your day going?” (se di giorno). Se chi vi saluta vuole aggiungere un po’ di familiarità in più alla situazione, aggiungerà “today”. Il che suonerà “Hello, how are you today?”, il che significa che chi vi sta salutando si ricorda, o fa finta di ricordarsi di voi.
A questo punto, non agitatevi, e seguite poche semplici regole.
1. Non è conversazione. A meno che non sia un amico intimo a chiedervelo, e non siate seduti davanti a un caffè o a una birra durante un appuntamento preso apposta per parlare dei vostri guai (sì, a New York dovete prendere appuntamento anche con gli amici), nel quotidiano non è ammesso rispondere che state male, né iniziare a elencare una serie di malattie-disavventure-inconvenienti (come usiamo spesso noi del sud). I motivi sono essenzialmente due. Primo: a New York si corre, e se dite che state male si rischia di aprire una conversazione, e non c’è tempo. Secondo: tra estranei non si va sul personale. Quindi, ricordatevelo. Anche se due secondi prima vi è passato un camion sul piede, se entrate al bar dovete dire al cassiere che state bene. A meno che non vogliate che vi chiami un’ambulanza, ma questa è un’altra storia.
2. Tra le risposte positive, quelle ammesse sono di solito costituite da una o due parole al massimo. Ad esempio, in scala di positività: great, good, fine (ma non abusatene, è troppo neutro), OK, not bad. Il not bad è già troppo pessimistico.
3. Potete anche non dire come state. In tal caso, l’alternativa è porre la stessa domanda, ad esempio “are you doing?”. Ma attenzione: per accaparrarvi il diritto a non rispondere, dovete cercare di anticipare l’altro, o almeno di parlare contemporaneamente. Come in un duello in un western, se è l’altro il primo a chiedere, di solito dovete rispondere, fosse anche un impercettibile “good”. Quindi, ripetete con me: [sottovoce] Good, [ad alta voce] Are you doing?
4. Nelle relazioni “cliente-servente”, a meno che non siate un cliente abituale, non sta a voi chiedere per primo al cassiere-cameriere-commesso come sta. Suona strano. Lasciatelo chiedere a lui e poi applicate le regole già elencate. Sempre in queste relazioni asimmetriche, se siete il cliente potete anche non chiedere al vostro “servente” come sta. Lui non se lo aspetta. Se volete davvero che vi risponda dovete marcare il “you” e usare un tono molto cordiale, anche con il suddetto “today”. Suonerà quindi “good, how are YOU today?”
E adesso, tutti fuori a fare esercizi. Ma non fateli in Italia, non servirebbe.

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Tapis Roulant

Qui o vivi dieci vite contemporaneamente o muori senza avere vissuto. New York è un tapis-roulant che a volte ti nasconde il giusto verso di percorrenza.

PS a New York ci sono pochissimi tapis-roulant (finora non ne ho visto uno, dico pochissimi per prudenza), e non è facile che qualcuno sappia dirti come si dice in inglese. 

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Fuga da New York

Lo stereotipo di New York è sempre stato quello di una città che non si ferma mai, tutti indaffarati durante il giorno e poi, senza mai fermarsi, un happy hour, un’inaugurazione dell’ennesima galleria d’arte, una cena, un club, fino a notte fonda, e poi di nuovo al lavoro, e poi ancora un museo, e via così.
Questo è certamente lo stile di vita dominante e sotto gli occhi di tutti. C’è poi una New York rilassata, “laid-back”, con tempi umani, piccoli locali, buona musica a poco prezzo (o gratis). New York è così varia e magica che permette anche di fuggire da sé stessa, rimanendo in città. A volte basta guardarsi intorno, oppure affrontare un viaggio di qualche fermata in metropolitana.
Brooklyn offre molti spunti per queste fughe da New York. Pur facendo parte a tutti gli effetti della città di New York, tutto è diverso a Brooklyn. L’architettura, lo stile di vita, i locali. Tutto un po’ più raccolto, rilassato e casalingo. Brooklyn è un piccolo tradimento a New York. Non una rivoluzione, diciamo uno sgarro fatto al grande boss, una convivenza pacifica tra due fratelli con caratteri molto diversi. L’orgoglio Brooklyniano non disdegna l’appartenenza a New York, semplicemente la tiene a distanza.
Una delle fughe che consiglio è all’Habana Outpost. Un bar-ristorante cubano (ma che strizza l’occhio ai gringos), in cui alcuni sacri vincoli dell’americanità vacillano.
Aperto solo in estate e realizzato con criteri eco-compatibili, il posto è una piccola palazzina colorata, all’angolo tra Fulton Street e South Portland Avenue (quartiere Fort Greene). All’interno, l’ambiente coloratissimo, la musica cubana e l’assenza di aria condizionata vi proietteranno già su un altro pianeta. Tuttavia, le due file ordinatissime per ordinare cibo e bevande vi riporteranno coi piedi per terra. Scegliete la coda giusta: una è per “food and drinks”, l’altra è per “drinks and corn”.
Già, perché anche se venite qui solo per un drink, non potete non ordinare la pannocchia di mais arrostita e poi condita “mexican style”, con formaggio, peperoncino e qualche goccia di lime da spremere sopra.
Per il resto, il menu ha pochi piatti cubani/sudamericani, include anche una sezione “For the Gringos” con gli immancabili burger, è economicissimo, non mancano i cocktail frozen spillati da macchine come quelle dei nostri sorbetti, niente di speciale, ma forti che stenderebbero un cavallo a stomaco pieno.
Una volta ordinato, pagato, e ricevuto lo scontrino per ritirare il cibo, siate disposti a dire addio all’America per qualche ora. Uscite all’aperto, in uno spazio recintato che dà sulla strada, e troverete i tavoli. Non ci sono regole, non ci sono code, non ci sono priorità, nessun fair play. Quando vedete un posto, sedetevi. Se i tavoli sono tutti occupati, la tecnica è quella del rapace. Aggiratevi tra i tavoli, guardate i clienti, e sperate di trovarvi nel posto giusto al momento giusto. Oppure puntate un tavolo, mettetevi lì vicino, e sperate che la vostra presenza metta pressione sui commensali (difficile: come già detto, qui non siamo più a New York).
Sperate di riuscire a sedervi prima che dalla cucina vi chiamino per consegnarvi il vostro cibo, altrimenti arrangiatevi, ve la godrete lo stesso, e prima o poi vi accomoderete.
Prendetevela comoda, e cercate di resistere ai rapaci che a loro volta vorranno appollaiarsi sul vostro trespolo.
Dall’area all’aperto potete uscire direttamente sulla strada attraverso un cancello. L’America ricomparirà ai vostri occhi già sulla soglia, con due buttafuori e alcuni cartelli che vi ricordano che non è consentito portare fuori cibo e bevande, e che quella è solo un’uscita e non un ingresso.
Se volete fuggire nei migliori dei modi, venite all’Habana Outpost la domenica sera: alle 8, avrete anche il cinema all’aperto. E, credetemi, sono davvero pochi i posti a New York dove potete vedere un film mentre sorseggiate un frozen margarita.
Proprio il viaggio ideale per una calda domenica estiva.
Buona fuga!

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Un piccolo regalo

Avete fatto l’ennesimo viaggio in metropolitana, scendete, e sognate di prendere finalmente aria. Percorrete la piattaforma, poi alcune scale o scale mobili, infine vedete i tornelli di uscita. A New York coincidono con quelli di ingresso. Se c’è molta gente che vuole entrare, bisogna cercare di mettersi d’accordo con lo sguardo per autoregolarsi.

Nella frenesia degli incroci tra chi parte e chi arriva potreste imbattervi in un personaggio particolare. Agisce diversamente da tutti gli altri, sta fermo, magari legge qualche riga da un libro o da un giornale, spesso sta appoggiato vicino ai tornelli. Sembra che stia aspettando l’autobus, o che si stia sforzando di fare l’indifferente. Non è un matto, né un ladro, né un poliziotto in borghese che si appresta a un pedinamento.

Se incrocerete il suo sguardo, vi chiederà un piccolo regalo: “could you swipe for me please”?

Se avete letto questo post sapete già di cosa sto parlando. Vi sta chiedendo di usare la vostra Metrocard per farlo passare. Se avete un abbonamento settimanale o mensile non vi costerà niente, se non un quarto d’ora in cui non potrete riprendere la metro (una volta passata la metrocard, infatti, non potrete più ripassarla per circa 15 minuti).

L’operazione è ovviamente illegale, quindi se decidete di farlo fatelo senza dare troppo nell’occhio, non so quale sia la sanzione ma se ho capito qualcosa di questa città, temo che potrebbero arrivare a sequestrarvi la Metrocard. Se decidete di farlo quindi, fatelo bene. Non tenete il braccio a distanza dal lettore come se trasportaste un pesce pescato da una settimana, piuttosto mettetevi in posizione di partenza, come se la metro doveste prenderla voi. Swipate, poi spostatevi e andate via. In quel momento, in quel preciso momento in cui vi sposterete, il ragazzo vi passerà vicino, e se siete fortunati, vi sorriderà. Fine.

Vi resterà questo, il brivido di una piccola disobbedienza, un sorriso, e quell’aria un po’ da Robin Hood che ha aiutato l’ennesimo bruco a rosicchiare un pezzo di grande mela.

Volete sapere se l’ho fatto? Uhm, direi che mi avvalgo del quinto emendamento.

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Radiohead – un’astronave a otto bit

Non avevo mai fatto l’esperienza di un grande concerto prima d’ora. Il mio debutto è stato qui, per la precisione a Newark, per il concerto dei Radiohead.

Sarà stato l’estremo ordine con cui si sono svolte le operazioni di ingresso o il fatto che fossimo più o meno in diciannovemila, o forse ancora per le caratteristiche stesse del luogo in cui si svolgeva il concerto, ma non ho proprio percepito l’ebbrezza, la calca, l’euforia che si dica precedano questi eventi.

Guardando all’esterno, sembrava che il concerto fosse destinato ad andare deserto. Se non fosse che, a un certo punto, guardando alle mie spalle, mi sono reso conto di essere parte di una lunghissima coda. In fila per uno, ordinati, senza spingere, biglietto alla mano.

Ah, il biglietto. Ho deciso di andare al concerto quattro giorni prima, ed era sold out. Qui negli States, in questi casi si cerca su stubhub.com, sito che mette in relazione venditori e acquirenti (privati), mettendo tutti al riparo dalle fregature (a fronte di una commissione di una decina di dollari).

Dopo la coda, la perquisizione, come in aeroporto. Con il metal detector, e a volte, manuale. Poi la scansione del biglietto, e via!

Un palazzetto da ventimila posti che sembra qualcosa a metà tra un albergo e un centro commerciale. Scale mobili, bar in ogni angolo, tappeti rossi, illuminazione forte, musica di sottofondo, monitor con pubblicità e annunci dappertutto.

Non sognatevi di cambiare posto rispetto a quello che avete sul biglietto: all’ingresso di ogni settore una hostess o uno steward vorranno verificare il vostro biglietto anche se vi assentate per qualche minuto, e vi accompagneranno al vostro posto.

Siamo nel palaghiaccio dei NJ Devils, la squadra di hockey di Newark. Gli americani fanno palazzetti con le dimensioni di piccoli stadi, che si sviluppano in altezza. Così, se non vuoi spendere una fortuna, sei altissimo e a strapiombo sul campo. Non capisco cosa si riesca a vedere in una partita di hockey da questa posizione, evidentemente agli americani basta esserci. Ci sono anche le suites, proprio come nei film: vere e proprie stanze private con vista sul campo e monitor, in cui è possibile avere servizio bar e assistenza personalizzata. Da bravi emuli degli americani, compriamo hot dog e birra e andiamo a sederci. Di lì a poco il concerto inizia. Io sono in uno dei punti più alti delle tribune, e da qui lo spettacolo è affascinante e inquietante allo stesso tempo. Il pubblico che affluisce sul parterre sembra un enorme gruppo di formiche che si muove ordinatamente verso una fonte di cibo.

La prima sensazione è che i radiohead “suonino”. Nel senso che suonano per davvero, si sporcano le mani, nonostante ci sia moltissima elettronica nella loro musica la componente “manuale” è fondamentale. Per complicarsi la vita, aggiungono un secondo batterista alla formazione. Gli incastri ritmici sono fenomenali, e particolarmente curati. Ritmo e suono sono gli elementi che caratterizzano la band di Abingdon in questo momento.

Gli altri elementi che mi hanno colpito favorevolmente sono concretezza e semplicità, tutto in favore dell’elemento più importante, e cioè la musica. Un palco semplice, senza macchinari, in cui i cambi avvengono a mano: serve un pianoforte, ci sono due persone che spingono un pianoforte. Poi serve una chitarra, si porta via il pianoforte e si porta la chitarra, e così via.

Le luci sono essenziali: un wall altissimo diviso in due sezioni, tendenzialmente monocolore con qualche gioco di movimento quasi da anni ’80. Tutto sommato, una scenografia a otto bit.

Dodici enormi display quadrati, ognuno sospeso tramite quattro cavi indipendenti, che possono così imporre qualunque orientamento. Su ogni display, frammenti e particolari del concerto, spesso con un aspetto lo-fi: monocromatico, presenza di rumore, disturbi, ecc. Una regia attenta si occupa di destrutturare le immagini e alternarle nei vari display. Penso a quanto la nostra percezione delle immagini sia cambiata negli ultimi anni. La ricomparsa dell’immagine quadrata, la presentazione di immagini disturbate e rumorose, le immagini che suscitano interesse anche quando raffigurano un singolo, insignificante particolare. La sintesi di tutto ciò è Instagram, ma questa è una parentesi che merita di essere aperta a parte.

Suonano, dicevamo, e suonano bene. Thom Yorke è capace, canta, balla, suona tastiere e chitarre, riesce a tenere tutti senza fiato quando intona ballad al pianoforte o quando, a fine concerto, canta un pezzo da solo, con chitarra acustica e loop station per la voce. Il resto della band è perfetto, non perde un colpo.

La qualità del suono è molto ricercata ma non “finta”, anche qui un equilibrio perfetto tra salti nel futuro e panorami sonori un po’ retrò. Anche nelle presentazioni dei brani è tutto molto semplice, niente spettacolarità, né mutismo da rockstar imbronciata: il prossimo pezzo si chiama Morning Mr Magpie. E si suona, e basta.

Il concerto è basato essenzialmente sull’album “The King of Limbs”, che viene suonato per intero, più qualche pezzo vecchio e famoso. Con la faccia furbetta di chi racconta chi è l’assassino, vi rivelo che ascolterete Karma Police ma non Creep.

Due ore, minuto più, minuto meno.

Due ore di viaggio in un gioco di rimandi tra passato e futuro, tra vecchie foto di famiglia e viaggi nello spazio-tempo. Praticamente, un’astronave a otto bit. Immagine

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If you have to ask what Jazz is, you’ll never know – Metti una sera con Barry Harris

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Se avete interesse per la musica, in particolare per il Jazz, e per l’America, potreste impiegare il vostro martedì pomeriggio/sera frequentando un workshop di Barry Harris. Non c’è bisogno che sappiate o vogliate suonare uno strumento, o cantare. Andate pure “disarmati”, l’importante è esserci.

Siamo al 250 di W 65 Street, vicinissimi al Lincoln Center, nella stessa strada in cui trova posto la Juilliard School of Music. L’area del Lincoln Center è un salotto, luci splendenti, ristoranti, cinema, teatri, abiti eleganti. Come spesso succede a New York, vi basterà fare un paio di isolati perché l’atmosfera cambi radicalmente.

Al 250 di W 65 Street troverete il Lincoln Square Neighborhood Center, un centro di aggregazione del quartiere. Seguite il suono, arriverete in una palestra/teatro in cui, entrando, io ho pensato “questa è l’America”: una cinquantina di persone, di ogni età (spesso dall’età indefinibile), che condividono lo spazio seduti su più file, a semicerchio. Sembra che li abbiano montati lì come comparse, e che in realtà l’unico “spettatore” sia io. All’inizio non capirete bene cosa sta accadendo, perché se da una parte ascolterete dei suoni inequivocabilmente jazz, dall’altra realizzerete presto che gran parte delle persone non sembra proprio dedita a una lezione di musica. C’è chi mangia, chi chiacchiera, chi legge, persino chi lavora a maglia.

In un primo momento sono molto più concentrato sulle persone che sulla musica, ed è lì che un pensiero arriva come un lampo: fino a quando non ti trovi negli Stati Uniti in una stanza con una cinquantina di persone, non ti rendi conto di quanto siano realistici i personaggi dei Simpson. Fino a quando restiamo in Italia, ci sembrano solo dei disegni fatti con grande inventiva. Qui, ci si accorge in un lampo che quegli uomini gialli raffigurano persone vere, prototipi umani che qui sono comunissimi. E stasera ci sono tutti.

Finalmente riesco a vedere dov’è Barry Harris, un ometto piccolo e nero con i capelli sale e pepe e le ossa delle mani annodate dall’artrosi. Rimane seduto, e parla a voce bassa. Barry ha 82 anni ed è stato uno dei pionieri del Jazz, ha suonato con Cannonball Adderley, Sonny Stitt, e con tanti altri giganti.

Da una vita, ogni martedì, tiene questo workshop, in cui non c’è selezione, non è richiesta regolarità nelle presenze, non ci sono compiti a casa. Niente di tutto questo. Quando hai voglia vai, paghi 15 dollari (10, a fronte di un’iscrizione di 45) e puoi rimanere per più di sei ore: le prime due si fa pianoforte, poi canto, poi musica d’insieme. Ho l’impressione che molte persone vengano qui al posto di andare al cinema, o di rimanere soli a casa. Altri sembra che  vengano qui per curiosità, per conoscere e omaggiare Barry. Altri ancora, sembra che vengano qui a suonare e a coccolare Barry da una vita.

La lezione di canto non è esaltante, sembra un open-mic di pessima qualità. Si canta sempre la stessa canzone di Rodgers e Hart,  in coppia, due giri di tema, il pubblico applaude e si cambia. E qui ritorna prepotentemente l’America: la sospensione del giudizio, l’idea che tutti ce la possano fare, quel pensiero che se io voglio cantare vado lì e canto, e chi se ne frega se sono stonato, è il mio momento, canterò, gli altri mi ascolteranno e ne sarò contento.

Barry ascolta una versione della canzone dopo l’altra e non dice nulla. Fino a quel momento non capisco ancora se sono davvero a un workshop di musica, a un happening, a un gruppo di ascolto, a una messa di Harlem, a una cerimonia celebrativa di un Guru.

Alle 22.30 si chiude coi cantanti ed è il momento degli strumentisti. E finalmente, venendo coinvolto in prima persona, vedo il Barry musicista e insegnante. Comincia a diventare più vispo, a tratti irascibile, ride, ci prende in giro, ci intima di avvicinarci e sederci intorno a lui, ma senza strumento. Dice che dobbiamo imparare a “vedere” la musica. Ci insegna il Jazz secondo tradizione, cioè cantando delle frasi che dobbiamo ripetere. Per una mezz’ora ripetiamo le sue frasi cantando. Peccato che lui parli a voce bassissima, con l’accento di un nero di Harlem, e canti a voce altrettanto bassa su note incomprensibili. Eppure lui le idee le ha molto chiare, tanto è vero che quando ripete su una tastierina giocattolo le note che ha cantato, ne vengono fuori dei frammenti meravigliosi. Poi ci invita finalmente a prendere gli strumenti e il gioco si fa davvero difficile. Canta delle frasi lunghe e articolate, e si infastidisce se proviamo troppo a lungo tra una ripetizione e l’altra. Dobbiamo ascoltarle e ripeterle, non c’è altro modo. Io mi perdo alla seconda frase, sono davvero perduto ma sento che comunque sto imparando qualcosa. Arranco, a volte faccio quasi finta di suonare, su frasi lunghissime suono una nota ogni dieci. Poi Barry mi chiede di suonare da solo e io confesso: “I’m lost”.

Ogni tanto si ferma e racconta un aneddoto, di quando “Sonny Stitted in” (i verbi formati dai nomi, ne abbiamo già parlato) e incantò tutti con un assolo strepitoso, e poi Cannonball, e poi Bill Evans, tante presenze evocate e appena accennate che arrivano, si illuminano per un attimo e poi spariscono.

Finisce la lezione, ci alziamo tutti, e a gruppetti ci avviciniamo a Barry. Si forma una coda, una specie di confessione laica. Quando tocca a me, ci salutiamo, mi presento, stringere la sua mano è come afferrare un ramo di ulivo secolare. Mi chiede da dove vengo, e lui esclama “cavolo, vengono tutti da Israele e dall’Italia per suonare a New York!”. Poi mi da un foglio di carta, io chiedo cosa sia, e lui mi risponde “Rules” – regole – una serie di esercizi per sviluppare la tecnica di scale e accordi.

Molto lentamente Barry si alza, va al pianoforte e si mette a chiacchierare e fare degli esempi, fino a che questi esempi non diventano “Polka Dots and Moonbeams”. Telefonini, incluso il mio, registrano il brano. I pianisti filmano le mani, i non pianisti il viso. Io, non pianista ma non troppo, cerco di stare in mezzo. Ci perdiamo tra le note e le frasi smozzicate, e io penso a quante ne abbia viste e passate quest’uomo, e mi chiedo se è più vecchio lui o il pianoforte che sta suonando.

Come ogni fiaba, tutto si rompe all’improvviso: ci cacciano spegnendo la luce. Mi chiedo se, come ogni celebrazione religiosa, questo atto si ripeta sempre uguale, ogni settimana, con gli stessi santi, gli stessi discepoli, gli stessi riti.

Non mi resta che tornare a verificare.

http://youtu.be/OIepLfOxUa8

http://youtu.be/fGNgURG7vOk

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Un vero NewYorker non swipa mai due volte

I verbi inglesi hanno un potere enorme, essenzialmente per due ragioni. La prima è che moltissimi sostantivi possono diventare immediatamente verbi (ad esempio to lunch = pranzare), per cui se vi trovate in difficoltà su un verbo provate pure a usare un sostantivo al suo posto, difficilmente sbaglierete. La seconda ragione è che essi descrivono azioni molto precise e dettagliate che spesso non hanno una corrispondenza diretta in italiano.
Se non volete trovarvi spaesati a New York, imparate questo verbo e il corrispondente gesto: “to swipe”. Si pronuncia “tu suàip”, e la sua traduzione letterale è “l’atto di far scorrere una tessera magnetica dentro un lettore affinché esso possa rilevare i dati di interesse”. In una parola: to swipe.
Ci sono almeno tre occasioni importanti in cui dovrete “swipare”.

Accessi: se siete a New York per lavorare, sappiate che la sicurezza è un’ossessione, le regole d’accesso agli edifici rigide, e le procedure inflessibili, sia nei luoghi di lavoro, sia nei condomini o nelle palestre. Dove lavoro io ci sono sei portieri che ormai mi conoscono e chiamano per nome, ma in attesa del mio badge di riconoscimento che dovrò swipare ogni volta che entro, essi continuano a chiedermi un documento di identità ad ogni ingresso, anche se esco solo un minuto a prendere il giornale. Quando avrò il badge sarà tutto più semplice: swipe sir, please.

Pagamenti: venite pure a New York con pochissimi dollari, per il tutto il resto c’è “swipe, please”. A proposito di dollari: se li prendete in Italia e, come spesso accade, la banca vi rifornisce da biglietti da cento o di taglio superiore, la prima cosa che avete bisogno di fare è cercare una banca e farvi cambiare un po’ di denaro in pezzi da 20 e 10. Quasi nessun commerciante NewYorkese concepisce la circolazione di biglietti di taglio più alto di 20 dollari, e molti sono disposti a perdere l’affare pur di non cambiarvi un biglietto da 100. Oppure swipate, anche solo per un dollaro. Quando vi troverete alla cassa di un negozio, mostrate la carta di credito al cassiere e lui vi dirà “swipe please”; voi guardate davanti a voi, un po’ in basso, e vedrete un piccolo display. Lateralmente, c’è una fessura per swipare. Dovete fare da voi. Poi, con una penna di plastica firmerete sul display o appoggerete il dito su una casella con scritto “yes”, e l’acquisto sarà concluso. A volte, invece, non sentirete “swipe please”. In quel caso, porgete la vostra carta al cassiere che swiperà gentilmente al vostro posto e molto spesso, per acquisti di poco conto, non vi chiederà né di introdurre il PIN, né di firmare, tanto meno vi rilascerà una ricevuta.

Trasporti: datemi due minuti per una digressione nostalgica, giusto per dire “io c’ero”. Poco più di vent’anni fa a New York la metropolitana si pagava in gettoni (nella foto del lettore di carte, il rettangolo di metallo sopraelevato copre la vecchia feritoia in cui inserite i gettoni). Strano a dirsi, gli americani sono molto attaccati ad alcune tradizioni e ci hanno messo molto più tempo del resto del mondo a convertirsi alle schede magnetiche. Andavi in biglietteria, pagavi e ti davano un sacchetto di gettoni, come all’autoscontro. Infilavi un gettone e si apriva un tornello. Adesso c’è la Metrocard. La Metrocard è una tessera magnetica dall’aspetto “povero”, molto sottile e flessibile, tagliata a un angolo. Averla non costa nulla, non ci sono altre forme di biglietto, vale anche un solo viaggio, poi si può ricaricare (indovinate come? dentro un’apposita macchinetta, in contanti o swipando la carta di credito) o buttarla via per poi prenderne un’altra con l’importo desiderato. Oppure, si può comprare una metrocard settimanale o mensile. State molto attenti alle metrocard: esteriormente sono tutte uguali, non c’è nessuna differenza tra una metrocard con un viaggio da $2.25 e una con abbonamento mensile da $104. Ma non temete, perché ci sono degli appositi lettori dove potete swipare la metrocard per vedere cosa c’è dentro.
Come si usa la metrocard? ovviamente si swipa prima di passare il tornello. Attenzione: i primi tre-quattro giorni di uso di metrocard saranno un po’ pericolosi, perché non memorizzerete subito il verso in cui dovete swipare. Si swipa con la mano destra e l’angolo tagliato rivolto verso di voi, non c’è altro verso. A volte non basta nemmeno rispettare il verso giusto, perché i lettori non sono perfetti. Ciò che vi potrebbe capitare da Neo-New Yorker è di arrivare con passo deciso e sicuro al tornello, swipare con energia e SDENG! Una tornellata sulle gambe. Guardate il display e leggerete “SWIPE AGAIN”. A questo punto, di solito, ci sarà un NewYorker dietro di voi pronto ad aiutarvi. Il mio consiglio è di fare piano all’inizio, swipare e aspettare la scritta “GO”, è un buon riscaldamento verso la NewYorkesità.

Perché un NewYorker, ricordatevelo, non swipa mai due volte.

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I am a legal alien

Ci sono cose nella vita di cui pensi di avere capito il senso, le chiudi in un cassetto e te ne dimentichi. Poi arriva un giorno in cui succede una cosa, qualcuno ti dice una frase, e capisci che avevi capito poco o nulla. Io avevo capito poco.

Ricordate la canzone di Sting “Englishman in New York” ? Il ritornello faceva “I’m an alien, I’m a legal alien, I’m an Englishman in New York”. Ora, a parte gli sforzi iniziali per capire che cosa dicesse (ama nelinen? ama lilo nelinen?), io avevo chiuso nel mio cassetto questa canzone insieme al pensiero: Ecco, povero Sting, lui è a New York, con questo cacchio di accento Brit, tutti lo prendono in giro perché lui si ostina a camminare down Fifth Avenue con una walking cane here at his side (vi immaginate Sting sulla quinta strada col bastone da passeggio e magari un bell’abito grigio e bombetta?), e poi quando si ferma a un caffè ordina tè e toast. E, tra uno scherno e l’altro, poverino, lui si sente un alieno. Ma un alieno legale. Ombra di dubbio: che vuol dire alieno legale? Niente, pensavo io, licenza poetica, nel senso che si sente un alieno legittimato a stare a New York (per via della lingua? perché ha il visto?). Tralasciato questo dettaglio, canzone chiusa, interpretazione archiviata, fine.

A sorpresa, anni dopo è arrivata l’illuminazione. Sono andato a richiedere il Social Security Number, che in pratica è l’equivalente del nostro codice fiscale (ma vuoi mettere come ti senti protetto da un social security number e, per contro, minacciato da un codice fiscale?) e, compilando il modulo, ho dovuto barrare una casella. Are you a) a US Citizen b) a legal alien allowed to work c) a legal alien not allowed to work.

Quindi, la sensazione di alienità legale non è legata a tè, toast e bastoni da passeggio! State tranquilli, dunque. A meno che non prendiate la cittadinanza sarete tutti dei legal alien. Esercizio: modificate il testo della canzone “Englishman in New York” adattandola ai vostri usi e costumi locali.

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Il mio primo maggio a New York con Occupy Wall Street

New York mi accoglie con la manifestazione del primo maggio, organizzata dai sindacati e da Occupy Wall Street. Atterro intorno alle 14, e aspettando i bagagli guardo un telegiornale su un monitor, in cui la giornalista informa delle iniziative di protesta e della marcia prevista per il tardo pomeriggio, dicendo che ci saranno da 500 a 1000 partecipanti (sic!). Nel seguito dell’intervista, la giornalista chiede a uno studente: “visto che voi non siete iscritti ai sindacati, perché manifestate con loro?”. Il candore di questa domanda mi impressiona, non riesco a spiegarmi se è dettato dal modo di pensare americano (molto, molto semplice e lineare: protesta dei sindacati, protestano i sindacati), oppure dall’atteggiamento egoista e individualista che ha modificato il nostro modo di pensare e agire. La risposta è ovvia, gentile e ferma: protestiamo tutti perché il problema è globale e va affrontato e risolto su base globale.

Arrivo a Rector St, nel cuore della City, e ciò che vedo conferma ciò che ho visto in TV. Pochissimi manifestanti, e una quantità impressionante di poliziotti, a piedi, in auto e a cavallo. Sono poliziotti di tutte le età, sembra che abbiano svuotato tutte le caserme di NY, sono dappertutto e sono riuniti in gruppi enormi, mediamente di trenta persone, ma se ne vedono anche di più numerosi. Anche le divise e gli equipaggiamenti sono diversi, ma nessuno in assetto anti sommossa. Mi colpisce però che tutti abbiano attaccate alla coscia molte paia di “manette rapide”, quelle fatte con le fascette di plastica.

Molte strade che attraversano la città in direzione downtown (nord-sud) sono transennate, si cammina sui marciapiedi, e agli incroci ci sono varchi presidiati da poliziotti che ti lasciano attraversare su richiesta.

Mentre rifletto su quanto il governo di New York abbia sopravvalutato il fenomeno, comincio a ricevere una serie di SMS dall’Italia che mi riportano i tweet di @tigella, una giornalista freelance che ha sollecitato un fund raising dal basso per seguire il fenomeno Occupy negli Stati Uniti: sembra che tra 15000 e 20000 persone stiano marciando pacificamente su Broadway, da Midtown verso Wall Street. Passa ancora una mezz’ora, e il rumore di fondo aumenta, arriva gente, tanta gente, tantissima, il rumore diventa forte, un ruggito, un boato, fino a quando tutto diventa decifrabile, slogan, tamburi, trombe, canzoni. Uno slogan su tutti: “A-Anti-Anticapitalista”. Altro tema caldo, il “99%”, un modo per sottolineare il fatto che pochissimi uomini detengono la maggior parte della ricchezza sul pianeta. Noi, i comuni mortali, coloro che risentono della crisi, siamo il 99%. Poi, la politica sull’immigrazione negli USA, le pensioni, l’assistenza sanitaria, i diritti degli studenti, e così via. Due cose mi colpiscono: i manifestanti sono di tutte le età, di tutti i ceti sociali e sono coscienti della globalità del problema, del fatto che sia necessario lavorare sulle radici per vedere crescere un albero sano. La seconda, è la gioia e l’atteggiamento pacifico con cui la marcia si sta svolgendo. La sensazione diffusa è che nessuno ricerca lo scontro, anzi, tutti tendono a sottolineare cosa è legale e autorizzato e cosa no, e provano ad attenersi a quanto concordato con le autorità cittadine.

Raggiungo il corteo a Zuccotti Park, l’emblema di Occupy Wall Street, e percorro un bel po’ di strada vicino ai manifestanti: loro, sulla strada, fiancheggiati da due fittissimi cordoni di poliziotti, separati da noi dalle transenne. Impossibile entrare o uscire dal corteo. Mi impressiona pensare che l’unica volta che abbia visto una cosa simile è stato alla marcia del primo maggio a San Pietroburgo, nel 2008. Esattamente la stessa modalità: manifestanti in strada, cordoni di polizia, transenne, “pubblico”. Sicuramente ci saranno delle motivazioni tecniche che facilitano il mantenimento dell’ordine pubblico, ma a me viene in mente un pensiero molto “americano”, semplice, lineare: le transenne servono anche a definire univocamente il tuo ruolo e i tuoi diritti e doveri, se sei dentro sei un manifestante, se sei fuori fai parte del pubblico. Puoi scegliere, e così sarà tutto chiaro. Se conoscete un po’ l’America troverete questo ragionamento plausibile.

In una zona più tranquilla, vicino al toro della City, chiedo ai poliziotti di farmi passare dalle transenne, faccio finta di attraversare la strada, ma all’ultimo momento devio e riesco a entrare nel corteo. Percorro i primi metri con l’idea che di lì a poco un poliziotto mi avrebbe fermato, e mi preparo a mettere in scena un “sorri, ai dont anderstend, ies, io turista italian, confuscion, situescion, piis end lov end garagò nau”, ma non succede niente. Sono un manifestante di Occupy Wall Street a tutti gli effetti. Seguo il flusso, c’è chi suona, chi balla, chi canta e chi grida. C’è chi tenta di trasmettere informazioni con il sistema del passaparola, che scoprirò essere ben collaudato e istituzionalizzato tra i ragazzi di Occupy.

Arrivo in Water Street Park, dove inizia un’assemblea, e proprio qui scopro i dettagli del funzionamento dello human microphone, il sistema che consente di comunicare a lunga distanza senza l’uso di amplificazione. Se vuoi prendere la parola devi gridare “mic check” (prova microfono). Se la gente intorno risponde gridando “mic check”, è fatta, è il tuo turno, puoi parlare. Spezzetta la tua frase in frammenti brevi, non appena ti fermerai la folla intorno a te ripeterà, gridandole all’unisono, le tue parole, che saranno raccolte e rilanciate dai vicini dei vicini, e così via. Se l’ambiente è particolarmente grande e affollato, si concorda più di una ripetizione per ogni spezzone, in modo tale che l’informazione si propaghi con certezza. A Water Street Park eravamo così tanti che si facevano tre ripetizioni per ogni frase. Per non disturbare la propagazione delle parole, non si applaude né si fischia, ma si usano segni con le mani come nel linguaggio dei sordomuti. Si applaude solo se si ha la certezza che la frase sia pienamente conclusa. Per una volta, la funzionalità vince sull’emotività. Il sistema dello “human microphone” mi affascina, sembra fatto apposta per Occupy, è collaborativo e funziona dal basso, è povero ed è affidato alla responsabilità del singolo nei confronti della collettività. E poi, riveste tutto di una certa sacralità, sembrano gli antichi “call and response” degli schiavi neri, se arrivi da lontano puoi anche scambiare ciò che senti per una preghiera. E preghiera diventa quasi quando a prendere la parola sono due preti di Brooklyn, attivisti e arrabbiati, che parlano di economia e povertà, e non di dio, né di fede. Arrivano anche un uomo di colore vestito da cardinale (mi domando se non lo sia veramente), due consiglieri comunali, un ragazzo che tra qualche giorno andrà sotto processo per manifestazione illegale, e così via, fino ad arrivare ad una ragazza di vent’anni che fa un discorso così vivo, lucido e arrabbiato sul capitalismo che mi commuove. Arrivano comunicazioni dalle altre parti del mondo, ci dicono che in California la polizia ha attaccato dei bambini e che Occupy London ha preso possesso di una parte del London Stock Exchange.

Altro “mic check”, altro avviso: ci dicono che siamo autorizzati a rimanere a Water Street Park solo fino alle 22, dopodiché il parco sarà dichiarato chiuso e che sarà illegale rimanere lì. La tensione sale, ci dicono anche che i poliziotti stanno circondando l’area e che non stanno lasciando entrare nessun altro, e che ci saranno difficoltà anche a uscire. Molti sembrano intenzionati a lottare e restare, io vado via alle 21.45, non me la sento di avere rogne, non sono qui per fare il giornalista, uno sponsor ha pagato per il mio visto facendosi carico di alcune responsabilità per garantire nei miei riguardi, e non vorrei che finisse nei guai per causa mia.

Attendo fuori dal parco e vedo che gli occupanti hanno accettato l’ordine di abbandonare la zona. Vanno via, ordinatamente, sorridenti, qualcuno canta, qualcuno grida “A-Anti-Anticapitalista”.

Piccoli gruppi provano a riorganizzarsi, c’è chi dice di andare a Zuccotti Park, c’è chi vuole tornare a Wall Street, ma si percepisce che per oggi è finita, c’è freddo, stanchezza, e anche molta soddisfazione. Incrocio un gruppo di ragazzi, qualche centinaio, camminano sulla strada con atteggiamento pacifico, molto più ordinatamente e rilassatamente di un’uscita dallo stadio quando la squadra di casa ha vinto. Alcuni poliziotti si esprimono con gesti inequivocabili con degli indicatori luminosi, vogliono che tutti si incanalino sul marciapiede e liberino la strada. Siamo su una piccola strada di Downtown, il marciapiede è stretto e reso ancora meno accessibile da un’impalcatura. E’ quasi impossibile per tutta quella gente in marcia ordinarsi rapidamente in una coda e salire sul marciapiede, così qualcuno inevitabilmente (o forse anche volontariamente) rimane sulla strada e cerca di procedere. Bad move, come dicono qui, tutti quelli sulla strada vengono immediatamente arrestati. Qui l’arresto è roba semplice, se un poliziotto ti dice di fare una cosa e tu non la fai immediatamente, lui ti arresta. Non ci sono margini di discussione. In queste occasioni, per altro, non è un solo poliziotto ad arrestarti, di solito ne arrivano una decina, di corsa, che ti buttano per terra e ti immobilizzano. Una tirata alle fascette, e poi in tre o quattro ti portano dentro l’auto. Il processo è assicurato da lì a un paio di giorni.

Fotografo un gruppo di poliziotti, uno di loro mi punta minaccioso il suo iPhone addosso e scatta una foto. Io mi spavento moltissimo, ma poi faccio il rilassato e spero che non mi stia segnalando a qualche gruppo di colleghi che verrà ad abbattermi. Lo guardo qualche di frazione di secondo in più, abbozzo un sorriso e lui mi fa, serissimo: “it’s one photo each, seems fair to me”. Capisco che non è aria, tiro su un pollicione, auguro buona notte e buon lavoro e vado via.

E’ quasi mezzanotte, ed è adesso che succede una cosa inverosimile. Dopo gli arresti, i poliziotti creano una nuova regola: non si può star fermi, bisogna camminare. Non sto parlando della strada destinata alle auto, sto parlando del marciapiede. Non si può stare fermi sul marciapiede. A nulla valgono le proteste di un uomo sui quarant’anni, che dice di essere un libero cittadino, un taxpayer (qui pagare le tasse è un punto d’onore, nessuno ha mai pensato di affermare che non pagare le tasse è cosa buona e giusta) libero di sostare su qualunque marciapiede della città. Un poliziotto risponde semplicemente e con molta calma: lei è libero di fare quello che vuole, ma se non cammina io l’arresto. Punto. Il signore, continuando a protestare, si mette in marcia.

L’ultimo atto della mia serata con Occupy è partecipare a un gregge umano: noi, le pecore; i poliziotti, i pastori. Siamo su Wall Street, camminiamo sul marciapiede “spinti” (a parole) da decine di poliziotti alle spalle; all’incirca dieci persone hanno dietro di sé altrettanti poliziotti che dicono “go, go, don’t stand, keep walking, keep walking”. Fra noi e la strada si frappongono due cordoni di poliziotti su scooter, a passo d’uomo. Mi chiedo dove andremo, o come faremo a fermarci, o quanto meno a uscire da questa situazione. Un uomo fa notare che, visto che ci portano in giro come pecore, dovremmo camminare a quattro zampe e belare. Una donna chiacchiera con un poliziotto di 50 anni dall’ampia mascella che somiglia a Ridge di Beautiful. La scena è surreale: camminano uno accanto all’altro, rilassati, come due vecchi amici, e si raccontano un po’ di vita. Come stanno a New York, quali sono i motivi della protesta, quali i problemi della vita di tutti i giorni e le prospettive per un mondo migliore. Lei chiede a lui: “ma le sembra vita questa?”. Lui risponde: “signora, io sono in piedi dalle 5 di stamattina a presidiare la città, le sembra vita la mia?”. Lei: “e allora perché non marcia con noi?”. Lui, ridendo: “è quello che sto facendo”. Ridono insieme e passeggiano, io trovo una strada laterale non presidiata e mi stacco, torno a casa immaginando i due mano nella mano, che decidono di andare a bere qualcosa insieme.

http://youtu.be/WwHsBGV0uBA

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